Sabato 4 Marzo 2017 nel tardo pomeriggio sono andata all’evento “A vista d’occhio”, vicino a Bergamo nello spazio Polaresco, per una serie di incontri, esposizioni d’arte e concerti. Un percorso prettamente femminile, in cui le artiste esponevano i propri punti di vista sul mondo con la propria arte. C’è chi lo ha fatto attraverso le fotografie, chi attraverso la musica, chi attraverso la danza, chi con sculture, installazioni, disegni, e quello che accomunava tutte era la voglia di farsi conoscere, di scambiarsi parole e sorrisi.
Alcuni progetti presentati sono ancora in fase di esecuzione, ad esempio quello di Dina Nerino. Dina con il suo “all’ombra della perfezione” racconta attraverso delle fotografie la battaglia quotidiana tra il proprio alter ego e la perfezione o meglio il modello di perfezione a cui la società fa riferimento. Attraverso l’utilizzo di una gamba di plastica perfetta, si immortala in alcuni luoghi simboli di Milano, in cui la donna solitamente è vittima di stereotipi, in cui deve risultare necessariamente perfetta.
Ho apprezzato moltissimo questo suo lavoro, probabilmente perché il tema della perfezione e dell’insicurezza generato da questa mi è sempre stato a cuore. Il grado qualitativo più elevato, tale da escludere qualsiasi difetto è spesso identificato con la massima compiutezza e necessariamente crea nella vita di tutti i giorni insicurezza nella persona. L’essere perfetto in quanto tale non esiste, e questa assolutezza con cui molte volte ci scontriamo non fa parte della quotidianità, o perlomeno non è una priorità su cui dobbiamo basare la nostra vita. Ma molte volte, alla donna in particolare, viene richiesto. Ci viene richiesto di essere belle, in forma, mamme perfette, mogli perfette, amanti perfette, lavoratrici perfette, ci viene chiesto di essere delle organizzatrici seriali, in modo da essere tutto questo appena elencato.
Ma cos’è perfetto? Chi stabilisce le regole della perfezione e soprattutto tutto quello per cui il Femminismo si è battuto dove è andato a finire? Mai come in questo periodo mi sento contro corrente, mai come in questo periodo mi sento lontana dall’ideologia femminista che si sta portando avanti. Forse il tutto viene riassunto nella frase o come potrei definirlo lo slogan: “we should all be feminists”.
Si è vero, ma non come lo stiamo facendo. Sono combattuta perché da una parte rendere il femminismo pop/popolare, potrebbe fare avvicinare più donne, ma dall’altra parte facendolo diventare alla portata di tutti (la moda per intenderci, la fashion week per intenderci) fa snaturare il movimento, fa perdere le questioni di base che da sempre e per sempre saranno al centro di esso: pari diritti tra donna e uomo, coltivare la propria intelligenza e avere a cuore questioni, tematiche e problemi comuni che le donne riscontrano quotidianamente sul lavoro, nella famiglia, nella società. L’indossare una maglietta con quello slogan fa di te un esempio, a maggior ragione se sei personaggio pubblico e donna, e hai il dovere di dare testimonianza di quello che il giorno prima hai asserito semplicemente indossandola.
Ma sabato mi sono messa un po’ in pace con questa questione, vedendo come delle ragazze e il loro operato alla fine poco centrano con tutto questo mondo. A loro basta far sentire la loro voce, il loro punto di vista, interessa solo rendere pubblico quello che per anni hanno fatto crescere dentro di se e buttarlo fuori, attraverso provocazioni, immagini forti, oggetti, disegni.
Un’altra opera che ho potuto vedere allo spazio Polaresco è quello di Pamela del Curto: “Non hai fatto un cazzo”. Davanti a voi vi troverete una culla al cui interno vi è un magnete rotto. L’artista mi ha spiegato che nel momento in cui rompi un magnete, nei punti di rottura si crea una forza repulsiva e il messaggio che lei intende mandare inserendolo nella culla è: l’apparente immobilità è pronta a esplodere da un momento all’altro. E’ così che ho visto queste ragazze, hanno raccolto informazioni, hanno vissuto esperienze positive e negative e sabato è stata data loro la possibilità di esplodere. Ognuno vive la propria vita, ma sa che nel momento in cui si presenta una situazione spiacevole ci sarà sempre quella solidarietà femminile pronta appunto ad esplodere, pronte ad unirsi per portare avanti le proprie ragioni, insieme e solo come noi donne sappiamo fare.
Per comprendere bene il tipo di evento a cui ho presenziato le o-pere di Susanna Tosatti ve lo spiegano perfettamente. Con il suo lavoro “le belle pere” ha costruito oggetti e disegnato ciò che meglio esprime il mondo femminile. Ha utilizzato una delle parti più importanti della donna, quelle che la distinguono e che rendono il corpo femminile bellissimo: il seno.
Con quest’ultima opera mi ricollego al discorso iniziale espresso attraverso le fotografie di Dina: il corpo perfetto, l’identità femminile e cosa vuol dire essere donna. Essere donna non significa adattarsi a uno schema imposto dalla società ma non vuol dire neppure rinunciare alla propria femminilità per avvicinarsi al mondo maschile: pretendere l’uguaglianza non deve portare all’essere identici, in quanto vorrebbe dire soffocare le proprie peculiarità. Bisogna smettere di identificarsi con i limiti che la storia ha imposto al sesso definito “debole” da chi forse ne temeva le potenzialità, e di sentirsi in difetto se non si accontenta lo schema antico: se non si hanno figli, se non si ha un compagno o se si è scelto di farsi guidare da un cuore libero che impone regole diverse da quelle a cui ci hanno abituato, bisogna andare avanti senza preoccuparsi, sicure delle proprie scelte.